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I nostri ragazzi anestetizzati

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Bret Easton Ellis non bara mai. Questo è il motivo per cui è una delle voci più autentiche e controverse d’America da quando, tre decenni fa, ha pubblicato Meno di zero — libro d’esordio che si muove sospeso tra la schietta semplicità di chi ha vent’anni e la sapienza stilistica di chi sa di appartenere a un numero ristretto di scrittori. Nato a Los Angeles il 7 marzo 1964, nel corso degli anni Ellis ha pubblicato bestseller come Le regole dell’attrazione, American Psycho, Glamorama e Lunar Park. Romanzi di nitidezza spietata che pagina dopo pagina esplorano le vite privilegiate di giovani milionari. L’ultimo, Imperial Bedrooms, ha in copertina una silhouette con la testa ricoperta di ricci che ricordano molto i suoi nel periodo Brat Pack e un paio di corna diaboliche. L’autore stesso ha dichiarato che i suoi libri sono in parte autobiografici perché «specchio di ciò che ero nell’età in cui li ho scritti».

Sono opere che parlano al nostro lato più oscuro, lo sollecitano e sembrano essere abitate da uomini cresciuti senza che qualcuno dicesse loro che cosa è buono e che cosa no. «In un certo senso è vero — racconta a “la Lettura” —. Penso che la differenza sia questa: io sono cresciuto in una cultura molto indipendente, se paragonata alla cultura corporativa che c’è ora in America, dove ognuno di noi deve riferirsi alla stessa cosa e apprezzarla. Io ero per conto mio. Non avevo molte occasioni di mostrare la mia narrativa e creavo il mio mondo senza una guida, però avevo il senso di cosa è buono e cosa è cattivo. Negli anni Settanta e Ottanta la critica infatti era molto vivace, in salute e fragorosa. Non tutti premevano il bottone “mi piace” su ogni cosa. C’erano voci contrarie. Trovo che oggi queste voci siano molto poche. La critica è considerata d’élite. Questo è un problema».

Internet ha influenzato la nostra capacità di giudizio?
«Senza dubbio. Tutte le informazioni su internet portano a immaginare il mondo come un posto più pericoloso e a farci credere di essere più importanti di quanto siamo in realtà. Abbiamo a portata di mano così tante informazioni che reagiamo in modo eccessivo, reinterpretiamo gli eventi e li drammatizziamo. Io a 6 anni andavo a scuola da solo e questo valeva per l’80 per cento dei bambini. Ora questo dato è sceso al 5 per cento. Alcuni genitori vengono arrestati perché lasciano che i loro figli di 5 o 6 anni vadano a scuola a piedi per conto proprio, ma il livello di criminalità per il rapimento di bambini è lo stesso. La mia era un’epoca in cui la presenza dei genitori era minima. Non c’erano i “genitori-elicottero”, che stanno sempre sopra i loro figli per proteggerli. “Stai al sicuro, stai attento”: io da piccolo non l’ho mai sentito dire. Da che cosa avrei dovuto stare al sicuro?».

Alcuni social media frequentati da ragazzi anche molto giovani hanno deciso di non pubblicare critiche negative. Le nuove generazioni sono troppo sensibili?
«Credo di sì, per un mucchio di motivi. Vai su Reddit, o su una bacheca dove sei protetto da una sorta di anonimato, e trovi un mucchio di meschinità e crudeltà. Questo credo che sia per una forma di emotività. Penso però che il problema sia nato perché una generazione è stata infantilizzata. Credo che la mia generazione di genitori, anche se io non sono un genitore, abbia cresciuto i figli in una bolla, dove tutti vincono e il dolore non c’è. Il cyberbullismo è un problema, ma i genitori della Generazione X hanno creato bambini disperatamente sensibili, che ora stanno entrando al college o all’università, e accadono cose insane. Esiste un movimento di studenti, credetemi, che chiede di avvertire se in un’opera, che sia di Shakespeare o di Toni Morrison poco importa, è presente materiale che potrebbe essere offensivo. Così, se sei sconvolto dal fatto che in Macbeth i bambini vengono uccisi, puoi chiedere di essere esonerato dal seguire la lezione su Macbeth. Perché? Per evitare che in loro riaffiori il ricordo di qualcosa che li ha sconvolti. Non conosco neanche uno scrittore che abbia voglia di leggere in un’università americana, probabilmente perché finirebbe per essere proibito».

Proibito?
«A Princeton per esempio, tra tutti i posti possibili, il rapper Big Sean tiene un concerto, e un gruppo di studentesse vuole proibirlo a causa di alcune strofe misogine, in cui chiama le donne puttane o stronzette. È un contesto hip-hop, ma loro vogliono bandirlo. Oppure nelle università ci sono queste cosiddette “aree sicure” con palloncini, cupcake e bella musica, dove, se arriva un relatore che ti sconvolge, puoi andare e cercare rifugio, per provare a dimenticare».

Lei hai scelto di non bloccare nessuno, nonostante molti la attacchino per le sue opinioni espresse su Twitter e altri social network.
«No, non ho mai bloccato nessuno. Ho bloccato solo una persona che amavo e non ricambiava il mio amore. Troppo doloroso».

Dunque le piace l’immediatezza di internet?
«Mi piace e mi piace l’interconnessione che si forma tra le persone. Mi piace che i fan possano raggiungermi e scrivere quello che vogliono. Non trovo ci sia nulla di sbagliato, come non c’è nulla di sbagliato nell’essere ubriachi o nell’andare su Twitter. Ciò che trovo sbagliato sono i guerrieri sociali della giustizia, che reinterpretano la libertà di parola e puniscono le persone perché hanno un’opinione o dicono cose stupide, e poi cercano di rovinare le loro vite. È medievale, orwelliano e fascista».

Molti suoi libri sono diventati soggetto di film e lei stesso oggi sembra occupato più con sceneggiature e produzioni cinematografiche, che con la narrativa. Tra tutti i suoi romanzi, «Lunar Park» sembra quello più difficile da tradurre in film.
«Be’, può sembrare un’idea pazza, ma sto per mettermi a scriverne il copione. Credo ci siano gli elementi per farne un film: se così non fosse non ne sarei coinvolto. Ci sono cose su cui mi devo concentrare e altre che devo lasciare andare, come i monologhi interiori. È un’esperienza diversa. Il libro è una cosa, il film un’altra. Credo che ci sarà una casa stregata e alcuni elementi piuttosto spaventosi, ma non so nemmeno se ci sarà Patrick Bateman. È un mondo effimero e tutto può cadere, ma l’accordo con i finanziatori è quasi pronto».

Parliamo ancora un po’ di cinema: fino a qualche anno fa potevamo vedere un film solo in certi luoghi e in certi orari. Oggi possiamo farlo dove e quando ci piace. Crede che questo abbia influenzato le nostre aspettative nei confronti del cinema?
«Le ha uccise. Per molti aspetti l’idea del cinema come forma d’arte, quando dovevi guidare fino alla sala cinematografica, pagare il biglietto, entrare ed essere sopraffatto dall’immagine sullo schermo gigante, non c’è più. Oggi ti sdrai a letto e guardi cosa c’è su Apple tv, puoi fare una pausa e guardare il resto del film domani. Tutto questo diminuisce l’esperienza che il regista, l’artista, voleva farti provare. Però, d’altro canto, l’altra sera volevo rivedere Il padrino – Parte II. Sono andato in camera, ho acceso e l’ho guardato. Fantastico! È magnifico avere la maggior parte dei film a portata di mano».

Possiamo paragonare l’attesa per la stagione successiva della nostra serie tv preferita a quella di una volta per un film?
«Sì, è vero. Le persone si sono spostate verso la televisione e nonostante oggi vengano girati più film che in tutta la storia del cinema americano, questa forma d’arte non è mai stata meno interessante, rare eccezioni a parte. L’economia della tv richiede che tutto sia fatto molto velocemente. Ogni scena si basa su due persone che scambiano informazioni. È un mezzo per scrittori. Il film è un mezzo per registi. Oggi è considerata l’età d’oro della tv, ma non è così, perché le serie tv fanno abbastanza schifo. Non hanno neppure la consistenza dei film mediocri, dove il regista può lavorare con le luci e il direttore della fotografia può usare la telecamera come un soggetto».

Non crede ci siano eccezioni, come «True Detective»?
«Avevano un mucchio di soldi e la procedura è ancora quella di due persone che svelano indizi su chi sia il serial killer, ma sì, aveva divagazioni e a volte era narrativo. True Detective è stato l’inizio della costruzione di un ponte con l’esperienza cinematografica».

Oltre al cinema e alla letteratura, negli ultimi anni ha esplorato forme di linguaggio diverse, fra cui l’uso di un podcast che ci ha dato modo di ascoltare gratuitamente le sue conversazioni con personaggi come Gus Van Sant, Marilyn Manson, Kevin Smith e Kanye West. Poche le ospiti donne. Lunedì 4 maggio è iniziata la seconda stagione e alcuni già si sono lamentati perché le nuove puntate sono accessibili solo tramite abbonamento.
«Uno dei motivi per cui a novembre ho dovuto sospendere il podcast è che ero stanco di partecipare a riunioni con la compagnia di produzione durante le quali mi dicevano che agli sponsor non piaceva il modo in cui leggevo. Ho cercato una soluzione per produrre lo show senza pubblicitari. Credo che il futuro dei podcast sia a pagamento. Verranno chiesti soldi come ne vengono chiesti per le canzoni. Tutti hanno un podcast, pure i cani! Il pubblico dovrà scegliere quali meritano di essere seguiti».

Il prossimo libro?
«C’è un romanzo che sto trascinando da tre anni e che non sta andando da nessuna parte, forse perché sono stato distratto. Non puoi forzare un libro a esistere. Ed è un po’ pessimistico, ma sento che negli Stati Uniti la cultura del libro sta diminuendo. Questo mi influenza. Imperial Bedrooms è stato quasi un esorcismo. Non è un capolavoro. Avrei potuto pubblicarlo, come no. Ero in uno stato d’animo simile a quello di un punk e ho deciso di pubblicarlo per ragioni perverse, solo per vedere cosa sarebbe successo. Un’occasione perduta. Non ero preoccupato della scrittura, mi interessava solo il mio dolore. L’ho scritto durante quella che chiamiamo crisi di mezza età, mentre ero occupato nella realizzazione del film The Informers, che ho scritto e prodotto ed è basato sulla mia raccolta di racconti Acqua dal sole. Avevo scommesso tutte le mie fiches, perché volevo farlo davvero bene e stava per essere distrutto per un mucchio di ragioni, tra cui i finanziatori e i produttori. Ero depresso anche per molti aspetti della mia vita sociale e tenevo questo diario, che poi è divenuto Imperial Bedrooms. L’ultima tappa del tour promozionale di questo libro è stata proprio l’Italia. Ero esausto. A Milano dovevo partecipare a un talk show molto popolare, il mio editore mi aveva assicurato che avremmo venduto un mucchio di copie, indifferentemente da cosa fosse il libro. “Mostrano il libro, ne parli un po’ e abbiamo un bestseller”. Ho detto sì, ma ho dovuto aspettare due o tre giorni e non ho amici in Italia. E pioveva. Alla fine ho partecipato al programma e non ho mai venduto così tante copie».

Tornerà in Italia?
«Non lo so, dopo quello che avete combinato con Amanda Knox! Non scherzo. Sono stato a cena con una coppia di italiani colti, molto belli e alla moda, nel periodo in cui lei stava per pubblicare il suo libro. Ho pensato che sarebbe stato interessante parlarne con loro, così ho chiesto: “Che cosa avete combinato con il caso Knox, in Italia?”. Mi hanno fissato e hanno esclamato: “È colpevole! È colpevole! Non capisci? Lei è colpevole!”. Mio Dio».

Enrico Rotelli

Illustrazione di Antonello Silverini

© RIPRODUZIONE RISERVATA


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